Lo storytelling è, prima di tutto, uno strumento narrativo che permette di creare reputazione intorno ad un prodotto, ad un’azienda o a una persona. La stessa tecnica viene utilizzata per sviluppare il potenziale dei gruppi, attraverso l’armonizzazione delle relazioni dei singoli intorno alla storia del brand. Quando i partecipanti al gruppo conoscono la storia del brand, infatti, aumentano il livello della motivazione intrinseca e l’orientamento al compito che facilita il raggiungimento di performance di elevato livello. Il momento successivo è quello del coinvolgimento del pubblico (mercato e fornitori) che diventa protagonista dell’evoluzione e parte della storia dell’azienda. Il risultato dell’intero processo è la fiducia diffusa. Ecco, dunque, il contributo della narrazione di storie con il Metodo Autobiografico Creativo per creare attrazione.
Lo storytelling aziendale
“Artigiani della qualità” è lo slogan con cui la nota azienda PoltroneSofà apre le porte al pubblico. Gli impiegati diventano attori e, facendosi trovare all’opera, di fatto, introducono il pubblico nella storia del brand. Raccontano di sorrisi, di amicizia, di serenità e di passione per quello che fanno. È in questo modo che gli spettatori si lasciano coinvolgere nel messaggio che, dal commerciale, si sposta sul piano emotivo. Certo, è una tecnica del marketing relazionale ma non funzionerebbe se i protagonisti non fossero sinceri. Per questo sono gli stessi dipendenti dell’azienda a metterci la faccia.
Lo storytelling aziendale, dunque, è una tecnica di persuasione che ha un unico obiettivo: invogliare il pubblico a vivere lo stesso clima che si respira all’interno del laboratorio in cui sta per prendere forma, in un clima di positività, il vostro prossimo divano. Agisce, dunque, al livello delle emozioni, perché lascia in mente le immagini rassicuranti dello spot che lo spettatore si aspetta di trovare recandosi in negozio.
Funziona ovunque: è il potere delle storie. Così, a scuola, in azienda, nelle associazioni, nella cooperazione, nello sport, un facilitatore, adeguatamente formato all’utilizzo di una delle tante tecniche di storytelling, può portare un gruppo a raggiungere i propri obiettivi.
La figura del facilitatore
Il facilitatore di un team è un armonizzatore delle dinamiche interne che sono la chiave del successo all’esterno, nel mercato. Cioè, deve conoscere ogni implicazione della dinamica emotiva che si attiva nei gruppi. Non è sempre detto, quindi, che il ruolo possa coincidere con il capo, il direttore, il presidente, l’allenatore. Anzi, molto meglio che sia un esperto esterno, con una preparazione ed esperienza specifiche.
- Leadership autoritaria,
- conflitto tra colleghi,
- comunicazione interna inefficace
sono, infatti, elementi comuni a molti gruppi che possono essere
- osservati da un occhio esterno,
- portati alla conoscenza del gruppo, come elementi di criticità, ed
- elaborati con l’ausilio di storie e metafore.
- E che non possono essere risolti sul piano razionale.
In questo modo, il facilitatore, aiutando l’intero gruppo a riflettere sulle relazioni interpersonali, potrà guidare un collettivo alla coesione e ad esprimere elevate performance. Egli deve, dunque, possedere
- conoscenza delle dinamiche interpersonali,
- capacità di problem solving creativo,
- consapevolezza e
- intelligenza emotiva, oltre alle
- competenze specifiche di almeno una tecnica di storytelling. Come, ad esempio, il Metodo Autobiografico Creativo.
Condurre i gruppi con il Metodo Autobiografico Creativo
Il Metodo Autobiografico Creativo risolve la domanda a cui i gruppi faticano a trovare una risposta. “Che cosa di noi sanno fuori di qua che noi non sappiamo?” Cioè, il lavoro con le storie in gruppo e di gruppo svela le ragioni che alimentano le criticità che, nate all’interno, si proiettano all’esterno, dove arrivano con una forza maggiore del livello di consapevolezza degli attori che ne sono coinvolti in prima battuta.
Non solo. Esiste anche un livello di inconscio collettivo, una dimensione immateriale più ampia del gruppo stesso, che esercita un silente ma forte condizionamento sull’ambiente. Anche questa è una dimensione da conoscere a cui assolve un buon lavoro sullo storytelling di gruppo.
Quello che vale per i singoli, vale anche per i collettivi. Lo spiega bene, tra l’altro, la matrice di Johari, modello ideato nel 1955 da Joseph Luft e Harry Ingham, ricercatori dell’università della California. Johari, nato dalla combinazione parzialmente storpiata delle iniziali dei nomi propri dei suoi ideatori, uno strumento per misurare la personalità in interazione con gli altri. Esso spiega, con l’immagine delle finestre, come esistano, tanto negli individui che nei gruppi, aspetti dell’identità noti e privati, accanto ai quali ve ne sono altri che le persone esterne notano e dei quali gli attori coinvolti non sono consapevoli (o che forse non accettano). Oltre ad un lato oscuro a tutti.
La finestra di Johari
Dato, dunque, uno schema in 4 aree, ciascuna indifferentemente composta da feedback positivi e negativi:
- pubblica, che contiene i fatti e le emozioni che di noi conosciamo (e che conoscono anche gli altri), che volutamente mostriamo e di cui disinvoltamente parliamo;
- privata, quella che contiene quegli aspetti che ben conosciamo di noi stessi ma che con confidiamo a nessuno, poiché non desideriamo condividerli;
- nascosta, quella che contiene le cose che gli altri sanno di noi e che noi, invece, di noi stessi non sappiamo. Quest’area è quella che incide prevalentemente sul modo in cui gli altri ci vedono e, di conseguenza, si comportano con noi, poiché appartiene al campo delle cose che fuori traspaiono chiaramente ma che noi vediamo in modo del tutto diverso;
- ignota, quella che contiene quegli aspetti totalmente sconosciuti sia a noi stessi che agli altri. E’ quella che potremmo definire, con Jung, l’area dell’inconscio collettivo, quella sepolta negli abissi del subconscio che si rivela solo in situazioni particolarmente forti sul piano emozionale.
La qualità dei rapporti tra i membri di un team è determinata dal livello delle interazioni tra le quattro aree. Più esse sono chiare e avvengono al livello di quella pubblica, più la socializzazione è aperta, la fiducia diffusa e la comunicazione diventa fluida.
La consapevolezza
Crescendo l’affiatamento del team, in altre parole, le informazioni si spostano sempre di più verso l’area pubblica (che diventa un finestrone sulla consapevolezza), con conseguente crescita dell’empatia. Aspetto che coinvolge anche gli spettatori esterni che entrano in risonanza emotiva con il gruppo.
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